Incontro
con i Parroci e il Clero di Roma
Discorso
del Santo Padre Benedetto XVI
Aula
Paolo VI
Giovedì,
14 febbraio 2013
Eminenza,
cari fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio!
E’
per me un dono particolare della Provvidenza che, prima di lasciare il
ministero petrino, possa ancora vedere il mio clero, il clero di Roma.
E’ sempre una grande gioia vedere come la Chiesa vive, come a Roma la
Chiesa è vivente; ci sono Pastori che, nello spirito del Pastore
supremo, guidano il gregge del Signore. E’ un clero realmente
cattolico, universale, e questo risponde all’essenza della Chiesa di
Roma: portare in sé l’universalità, la cattolicità di tutte le genti,
di tutte le razze, di tutte le culture. Nello stesso tempo, sono molto
grato al Cardinale Vicario che aiuta a risvegliare, a ritrovare le
vocazioni nella stessa Roma, perché se Roma, da una parte, dev’essere
la città dell’universalità, dev’essere anche una città con una propria
forte e robusta fede, dalla quale nascono anche vocazioni. E sono
convinto che, con l’aiuto del Signore, possiamo trovare le vocazioni
che Egli stesso ci dà, guidarle, aiutarle a maturare, e così servire
per il lavoro nella vigna del Signore.
Oggi
avete confessato davanti alla tomba di san Pietro il Credo: nell’Anno
della fede, mi sembra un atto molto opportuno, necessario forse, che il
clero di Roma si riunisca sulla tomba dell’Apostolo al quale il Signore
ha detto: “A te affido la mia Chiesa. Sopra di te costruisco la mia
Chiesa” (cfr Mt 16,18-19). Davanti al Signore, insieme con Pietro,
avete confessato: “Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivo” (cfr Mt
16,15-16). Così cresce la Chiesa: insieme con Pietro, confessare
Cristo, seguire Cristo. E facciamo questo sempre. Io sono molto grato
per la vostra preghiera, che ho sentito – l’ho detto mercoledì – quasi
fisicamente. Anche se adesso mi ritiro, nella preghiera sono sempre
vicino a tutti voi e sono sicuro che anche voi sarete vicini a me,
anche se per il mondo rimango nascosto.
Per
oggi, secondo le condizioni della mia età, non ho potuto preparare un
grande, vero discorso, come ci si potrebbe aspettare; ma piuttosto
penso ad una piccola chiacchierata sul Concilio Vaticano II, come io
l’ho visto. Comincio con un aneddoto: io ero stato nominato nel ’59
professore all’Università di Bonn, dove studiano gli studenti, i
seminaristi della diocesi di Colonia e di altre diocesi circostanti.
Così, sono venuto in contatto con il Cardinale di Colonia, il Cardinale
Frings. Il Cardinale Siri, di Genova – mi sembra nel ’61 - aveva
organizzato una serie di conferenze di diversi Cardinali europei sul
Concilio, e aveva invitato anche l’Arcivescovo di Colonia a tenere una
delle conferenze, con il titolo: Il Concilio e il mondo del pensiero
moderno.
Il
Cardinale mi ha invitato – il più giovane dei professori – a scrivergli
un progetto; il progetto gli è piaciuto e ha proposto alla gente, a
Genova, il testo come io l’avevo scritto. Poco dopo, Papa Giovanni lo
invita ad andare da lui e il Cardinale era pieno di timore di avere
forse detto qualcosa di non corretto, di falso, e di venire citato per
un rimprovero, forse anche per togliergli la porpora. Sì, quando il suo
segretario lo ha vestito per l’udienza, il Cardinale ha detto: “Forse
adesso porto per l’ultima volta questo abito”. Poi è entrato, Papa
Giovanni gli va incontro, lo abbraccia, e dice: “Grazie, Eminenza, lei
ha detto le cose che io volevo dire, ma non avevo trovato le parole”.
Così, il Cardinale sapeva di essere sulla strada giusta e mi ha
invitato ad andare con lui al Concilio, prima come suo esperto
personale; poi, nel corso del primo periodo - mi pare nel novembre ’62
– sono stato nominato anche perito ufficiale del Concilio.
Allora,
noi siamo andati al Concilio non solo con gioia, ma con entusiasmo.
C’era un’aspettativa incredibile. Speravamo che tutto si rinnovasse,
che venisse veramente una nuova Pentecoste, una nuova era della Chiesa,
perché la Chiesa era ancora abbastanza robusta in quel tempo, la prassi
domenicale ancora buona, le vocazioni al sacerdozio e alla vita
religiosa erano già un po’ ridotte, ma ancora sufficienti. Tuttavia, si
sentiva che la Chiesa non andava avanti, si riduceva, che sembrava
piuttosto una realtà del passato e non la portatrice del futuro. E in
quel momento, speravamo che questa relazione si rinnovasse, cambiasse;
che la Chiesa fosse di nuovo forza del domani e forza dell’oggi. E
sapevamo che la relazione tra la Chiesa e il periodo moderno, fin
dall’inizio, era un po’ contrastante, cominciando con l’errore della
Chiesa nel caso di Galileo Galilei; si pensava di correggere questo
inizio sbagliato e di trovare di nuovo l’unione tra la Chiesa e le
forze migliori del mondo, per aprire il futuro dell’umanità, per aprire
il vero progresso. Così, eravamo pieni di speranza, di entusiasmo, e
anche di volontà di fare la nostra parte per questa cosa. Mi ricordo
che un modello negativo era considerato il Sinodo Romano. Si disse -
non so se sia vero – che avessero letto i testi preparati, nella
Basilica di San Giovanni, e che i membri del Sinodo avessero acclamato,
approvato applaudendo, e così si sarebbe svolto il Sinodo. I Vescovi
dissero: No, non facciamo così. Noi siamo Vescovi, siamo noi stessi
soggetto del Sinodo; non vogliamo soltanto approvare quanto è stato
fatto, ma vogliamo essere noi il soggetto, i portatori del Concilio.
Così anche il Cardinale Frings, che era famoso per la fedeltà assoluta,
quasi scrupolosa, al Santo Padre, in questo caso disse: Qui siamo in
altra funzione. Il Papa ci ha convocati per essere come Padri, per
essere Concilio ecumenico, un soggetto che rinnovi la Chiesa. Così
vogliamo assumere questo nostro ruolo.
Il
primo momento, nel quale questo atteggiamento si è mostrato, è stato
subito il primo giorno. Erano state previste, per questo primo giorno,
le elezioni delle Commissioni ed erano state preparate, in modo – si
cercava – imparziale, le liste, i nominativi; e queste liste erano da
votare. Ma subito i Padri dissero: No, non vogliamo semplicemente
votare liste già fatte. Siamo noi il soggetto. Allora, si sono dovute
spostare le elezioni, perché i Padri stessi volevano conoscersi un po’,
volevano loro stessi preparare delle liste. E così è stato fatto. I
Cardinali Liénart di Lille, il Cardinale Frings di Colonia avevano
pubblicamente detto: Così no. Noi vogliamo fare le nostre liste ed
eleggere i nostri candidati. Non era un atto rivoluzionario, ma un atto
di coscienza, di responsabilità da parte dei Padri conciliari.
Così
cominciava una forte attività per conoscersi, orizzontalmente, gli uni
gli altri, cosa che non era a caso. Al “Collegio dell’Anima”, dove
abitavo, abbiamo avuto molte visite: il Cardinale era molto conosciuto,
abbiamo visto Cardinali di tutto il mondo. Mi ricordo bene la figura
alta e snella di mons. Etchegaray, che era Segretario della Conferenza
Episcopale Francese, degli incontri con Cardinali, eccetera. E questo
era tipico, poi, per tutto il Concilio: piccoli incontri trasversali.
Così ho conosciuto grandi figure come Padre de Lubac, Daniélou, Congar,
eccetera. Abbiamo conosciuto vari Vescovi; mi ricordo particolarmente
del Vescovo Elchinger di Strasburgo, eccetera. E questa era già
un’esperienza dell’universalità della Chiesa e della realtà concreta
della Chiesa, che non riceve semplicemente imperativi dall’alto, ma
insieme cresce e va avanti, sempre sotto la guida – naturalmente – del
Successore di Pietro.
Tutti,
come ho detto, venivano con grandi aspettative; non era mai stato
realizzato un Concilio di queste dimensioni, ma non tutti sapevano come
fare. I più preparati, diciamo quelli con intenzioni più definite,
erano l’episcopato francese, tedesco, belga, olandese, la cosiddetta
“alleanza renana”. E, nella prima parte del Concilio, erano loro che
indicavano la strada; poi si è velocemente allargata l’attività e tutti
sempre più hanno partecipato nella creatività del Concilio. I francesi
ed i tedeschi avevano diversi interessi in comune, anche con sfumature
abbastanza diverse. La prima, iniziale, semplice - apparentemente
semplice – intenzione era la riforma della liturgia, che era già
cominciata con Pio XII, il quale aveva già riformato la Settimana
Santa; la seconda, l’ecclesiologia; la terza, la Parola di Dio, la
Rivelazione; e, infine, anche l’ecumenismo. I francesi, molto più che i
tedeschi, avevano ancora il problema di trattare la situazione delle
relazioni tra la Chiesa e il mondo.
Cominciamo
con il primo. Dopo la Prima Guerra Mondiale, era cresciuto, proprio
nell’Europa centrale e occidentale, il movimento liturgico, una
riscoperta della ricchezza e profondità della liturgia, che era finora
quasi chiusa nel Messale Romano del sacerdote, mentre la gente pregava
con propri libri di preghiera, i quali erano fatti secondo il cuore
della gente, così che si cercava di tradurre i contenuti alti, il
linguaggio alto, della liturgia classica in parole più emozionali, più
vicine al cuore del popolo. Ma erano quasi due liturgie parallele: il
sacerdote con i chierichetti, che celebrava la Messa secondo il
Messale, ed i laici, che pregavano, nella Messa, con i loro libri di
preghiera, insieme, sapendo sostanzialmente che cosa si realizzava
sull’altare. Ma ora era stata riscoperta proprio la bellezza, la
profondità, la ricchezza storica, umana, spirituale del Messale e la
necessità che non solo un rappresentante del popolo, un piccolo
chierichetto, dicesse “Et cum spiritu tuo” eccetera, ma che fosse
realmente un dialogo tra sacerdote e popolo, che realmente la liturgia
dell’altare e la liturgia del popolo fosse un’unica liturgia, una
partecipazione attiva, che le ricchezze arrivassero al popolo; e così
si è riscoperta, rinnovata la liturgia.
Io
trovo adesso, retrospettivamente, che è stato molto buono cominciare
con la liturgia, così appare il primato di Dio, il primato
dell’adorazione. “Operi Dei nihil praeponatur”: questa parola della
Regola di san Benedetto (cfr 43,3) appare così come la suprema regola
del Concilio. Qualcuno aveva criticato che il Concilio ha parlato su
tante cose, ma non su Dio. Ha parlato su Dio! Ed è stato il primo atto
e quello sostanziale parlare su Dio e aprire tutta la gente, tutto il
popolo santo, all’adorazione di Dio, nella comune celebrazione della
liturgia del Corpo e Sangue di Cristo. In questo senso, al di là dei
fattori pratici che sconsigliavano di cominciare subito con temi
controversi, è stato, diciamo, realmente un atto di Provvidenza che
agli inizi del Concilio stia la liturgia, stia Dio, stia l’adorazione.
Adesso non vorrei entrare nei dettagli della discussione, ma vale la
pena sempre tornare, oltre le attuazioni pratiche, al Concilio stesso,
alla sua profondità e alle sue idee essenziali.
Ve
n’erano, direi, diverse: soprattutto il Mistero pasquale come centro
dell’essere cristiano, e quindi della vita cristiana, dell’anno, del
tempo cristiano, espresso nel tempo pasquale e nella domenica che è
sempre il giorno della Risurrezione. Sempre di nuovo cominciamo il
nostro tempo con la Risurrezione, con l’incontro con il Risorto, e
dall’incontro con il Risorto andiamo al mondo. In questo senso, è un
peccato che oggi si sia trasformata la domenica in fine settimana,
mentre è la prima giornata, è l’inizio; interiormente dobbiamo tenere
presente questo: che è l’inizio, l’inizio della Creazione, è l’inizio
della ricreazione nella Chiesa, incontro con il Creatore e con Cristo
Risorto. Anche questo duplice contenuto della domenica è importante: è
il primo giorno, cioè festa della Creazione, noi stiamo sul fondamento
della Creazione, crediamo nel Dio Creatore; e incontro con il Risorto,
che rinnova la Creazione; il suo vero scopo è creare un mondo che è
risposta all’amore di Dio.
Poi
c’erano dei principi: l’intelligibilità, invece di essere rinchiusi in
una lingua non conosciuta, non parlata, ed anche la partecipazione
attiva. Purtroppo, questi principi sono stati anche male intesi.
Intelligibilità non vuol dire banalità, perché i grandi testi della
liturgia – anche se parlati, grazie a Dio, in lingua materna – non sono
facilmente intelligibili, hanno bisogno di una formazione permanente
del cristiano perché cresca ed entri sempre più in profondità nel
mistero e così possa comprendere. Ed anche la Parola di Dio – se penso
giorno per giorno alla lettura dell’Antico Testamento, anche alla
lettura delle Epistole paoline, dei Vangeli: chi potrebbe dire che
capisce subito solo perché è nella propria lingua? Solo una formazione
permanente del cuore e della mente può realmente creare intelligibilità
ed una partecipazione che è più di una attività esteriore, che è un
entrare della persona, del mio essere, nella comunione della Chiesa e
così nella comunione con Cristo.
Secondo
tema: la Chiesa. Sappiamo che il Concilio Vaticano I era stato
interrotto a causa della guerra tedesco-francese e così è rimasto con
una unilateralità, con un frammento, perché la dottrina sul primato -
che è stata definita, grazie a Dio, in quel momento storico per la
Chiesa, ed è stata molto necessaria per il tempo seguente - era
soltanto un elemento in un’ecclesiologia più vasta, prevista,
preparata. Così era rimasto il frammento. E si poteva dire: se il
frammento rimane così come è, tendiamo ad una unilateralità: la Chiesa
sarebbe solo il primato. Quindi già dall’inizio c’era questa intenzione
di completare l’ecclesiologia del Vaticano I, in una data da trovare,
per una ecclesiologia completa. Anche qui le condizioni sembravano
molto buone perché, dopo la Prima Guerra Mondiale, era rinato il senso
della Chiesa in modo nuovo. Romano Guardini disse: “Nelle anime
comincia a risvegliarsi la Chiesa”, e un vescovo protestante parlava
del “secolo della Chiesa”. Veniva ritrovato, soprattutto, il concetto,
che era previsto anche dal Vaticano I, del Corpo Mistico di Cristo. Si
voleva dire e capire che la Chiesa non è un’organizzazione, qualcosa di
strutturale, giuridico, istituzionale - anche questo -, ma è un
organismo, una realtà vitale, che entra nella mia anima, così che io
stesso, proprio con la mia anima credente, sono elemento costruttivo
della Chiesa come tale. In questo senso, Pio XII aveva scritto
l’Enciclica Mystici Corporis Christi, come un passo verso un
completamento dell’ecclesiologia del Vaticano I.
Direi
che la discussione teologica degli anni ’30-’40, anche ’20, era
completamente sotto questo segno della parola “Mystici Corporis”. Fu
una scoperta che ha creato tanta gioia in quel tempo ed anche in questo
contesto è cresciuta la formula: Noi siamo la Chiesa, la Chiesa non è
una struttura; noi stessi cristiani, insieme, siamo tutti il Corpo vivo
della Chiesa. E, naturalmente, questo vale nel senso che noi, il vero
“noi” dei credenti, insieme con l’”Io” di Cristo, è la Chiesa; ognuno
di noi, non “un noi”, un gruppo che si dichiara Chiesa. No: questo “noi
siamo Chiesa” esige proprio il mio inserimento nel grande “noi” dei
credenti di tutti i tempi e luoghi. Quindi, la prima idea: completare
l’ecclesiologia in modo teologico, ma proseguendo anche in modo
strutturale, cioè: accanto alla successione di Pietro, alla sua
funzione unica, definire meglio anche la funzione dei Vescovi, del
Corpo episcopale. E, per fare questo, è stata trovata la parola
“collegialità”, molto discussa, con discussioni accanite, direi, anche
un po’ esagerate. Ma era la parola - forse ce ne sarebbe anche
un’altra, ma serviva questa - per esprimere che i Vescovi, insieme,
sono la continuazione dei Dodici, del Corpo degli Apostoli. Abbiamo
detto: solo un Vescovo, quello di Roma, è successore di un determinato
Apostolo, di Pietro. Tutti gli altri diventano successori degli
Apostoli entrando nel Corpo che continua il Corpo degli Apostoli. Così
proprio il Corpo dei Vescovi, il collegio, è la continuazione del Corpo
dei Dodici, ed ha così la sua necessità, la sua funzione, i suoi
diritti e doveri. Appariva a molti come una lotta per il potere, e
forse qualcuno anche ha pensato al suo potere, ma sostanzialmente non
si trattava di potere, ma della complementarietà dei fattori e della
completezza del Corpo della Chiesa con i Vescovi, successori degli
Apostoli, come elementi portanti; ed ognuno di loro è elemento portante
della Chiesa, insieme con questo grande Corpo.
Questi
erano, diciamo, i due elementi fondamentali e, nella ricerca di una
visione teologica completa dell’ecclesiologia, nel frattempo, dopo gli
anni ’40, negli anni ’50, era già nata un po’ di critica nel concetto
di Corpo di Cristo: “mistico” sarebbe troppo spirituale, troppo
esclusivo; era stato messo in gioco allora il concetto di “Popolo di
Dio”. E il Concilio, giustamente, ha accettato questo elemento, che nei
Padri è considerato come espressione della continuità tra Antico e
Nuovo Testamento. Nel testo del Nuovo Testamento, la parola “Laos tou
Theou”, corrispondente ai testi dell’Antico Testamento, significa – mi
sembra con solo due eccezioni – l’antico Popolo di Dio, gli ebrei che,
tra i popoli, “goim”, del mondo, sono “il” Popolo di Dio. E gli altri,
noi pagani, non siamo di per sé il Popolo di Dio, diventiamo figli di
Abramo, e quindi Popolo di Dio entrando in comunione con il Cristo, che
è l’unico seme di Abramo. Ed entrando in comunione con Lui, essendo uno
con Lui, siamo anche noi Popolo di Dio. Cioè: il concetto “Popolo di
Dio” implica continuità dei Testamenti, continuità della storia di Dio
con il mondo, con gli uomini, ma implica anche l’elemento cristologico.
Solo tramite la cristologia diveniamo Popolo di Dio e così si combinano
i due concetti. Ed il Concilio ha deciso di creare una costruzione
trinitaria dell’ecclesiologia: Popolo di Dio Padre, Corpo di Cristo,
Tempio dello Spirito Santo.
Ma
solo dopo il Concilio è stato messo in luce un elemento che si trova un
po’ nascosto, anche nel Concilio stesso, e cioè: il nesso tra Popolo di
Dio e Corpo di Cristo, è proprio la comunione con Cristo nell’unione
eucaristica. Qui diventiamo Corpo di Cristo; cioè la relazione tra
Popolo di Dio e Corpo di Cristo crea una nuova realtà: la comunione. E
dopo il Concilio è stato scoperto, direi, come il Concilio, in realtà,
abbia trovato, abbia guidato a questo concetto: la comunione come
concetto centrale. Direi che, filologicamente, nel Concilio esso non è
ancora totalmente maturo, ma è frutto del Concilio che il concetto di
comunione sia diventato sempre più l’espressione dell’essenza della
Chiesa, comunione nelle diverse dimensioni: comunione con il Dio
Trinitario - che è Egli stesso comunione tra Padre, Figlio e Spirito
Santo -, comunione sacramentale, comunione concreta nell’episcopato e
nella vita della Chiesa.
Ancora
più conflittuale era il problema della Rivelazione. Qui si trattava
della relazione tra Scrittura e Tradizione, e qui erano interessati
soprattutto gli esegeti per una maggiore libertà; essi si sentivano un
po’ – diciamo – in una situazione di inferiorità nei confronti dei
protestanti, che facevano le grandi scoperte, mentre i cattolici si
sentivano un po’ “handicappati” dalla necessità di sottomettersi al
Magistero. Qui, quindi, era in gioco una lotta anche molto concreta:
quale libertà hanno gli esegeti? Come si legge bene la Scrittura? Che
cosa vuol dire Tradizione? Era una battaglia pluridimensionale che
adesso non posso mostrare, ma importante è che certamente la Scrittura
è la Parola di Dio e la Chiesa sta sotto la Scrittura, obbedisce alla
Parola di Dio, e non sta al di sopra della Scrittura. E tuttavia, la
Scrittura è Scrittura soltanto perché c’è la Chiesa viva, il suo
soggetto vivo; senza il soggetto vivo della Chiesa, la Scrittura è solo
un libro e apre, si apre a diverse interpretazioni e non dà un’ultima
chiarezza.
Qui,
la battaglia - come ho detto - era difficile, e fu decisivo un
intervento di Papa Paolo VI. Questo intervento mostra tutta la
delicatezza del padre, la sua responsabilità per l’andamento del
Concilio, ma anche il suo grande rispetto per il Concilio. Era nata
l’idea che la Scrittura è completa, vi si trova tutto; quindi non si ha
bisogno della Tradizione, e perciò il Magistero non ha niente da dire.
Allora, il Papa ha trasmesso al Concilio mi sembra 14 formule di una
frase da inserire nel testo sulla Rivelazione e ci dava, dava ai Padri,
la libertà di scegliere una delle 14 formule, ma disse: una deve essere
scelta, per rendere completo il testo. Io mi ricordo, più o meno, della
formula “non omnis certitudo de veritatibus fidei potest sumi ex Sacra
Scriptura”, cioè la certezza della Chiesa sulla fede non nasce soltanto
da un libro isolato, ma ha bisogno del soggetto Chiesa illuminato,
portato dallo Spirito Santo. Solo così poi la Scrittura parla ed ha
tutta la sua autorevolezza. Questa frase che abbiamo scelto nella
Commissione dottrinale, una delle 14 formule, è decisiva, direi, per
mostrare l’indispensabilità, la necessità della Chiesa, e così capire
che cosa vuol dire Tradizione, il Corpo vivo nel quale vive dagli inizi
questa Parola e dal quale riceve la sua luce, nel quale è nata. Già il
fatto del Canone è un fatto ecclesiale: che questi scritti siano la
Scrittura risulta dall’illuminazione della Chiesa, che ha trovato in sé
questo Canone della Scrittura; ha trovato, non creato, e sempre e solo
in questa comunione della Chiesa viva si può anche realmente capire,
leggere la Scrittura come Parola di Dio, come Parola che ci guida nella
vita e nella morte.
Come
ho detto, questa era una lite abbastanza difficile, ma grazie al Papa e
grazie – diciamo – alla luce dello Spirito Santo, che era presente nel
Concilio, è stato creato un documento che è uno dei più belli e anche
innovativi di tutto il Concilio, e che deve essere ancora molto più
studiato. Perché anche oggi l’esegesi tende a leggere la Scrittura
fuori dalla Chiesa, fuori dalla fede, solo nel cosiddetto spirito del
metodo storico-critico, metodo importante, ma mai così da poter dare
soluzioni come ultima certezza; solo se crediamo che queste non sono
parole umane, ma sono parole di Dio, e solo se vive il soggetto vivo al
quale ha parlato e parla Dio, possiamo interpretare bene la Sacra
Scrittura. E qui - come ho detto nella prefazione del mio libro su Gesù
(cfr vol. I) - c’è ancora molto da fare per arrivare ad una lettura
veramente nello spirito del Concilio. Qui l’applicazione del Concilio
ancora non è completa, ancora è da fare.
E,
infine, l’ecumenismo. Non vorrei entrare adesso in questi problemi, ma
era ovvio – soprattutto dopo le “passioni” dei cristiani nel tempo del
nazismo – che i cristiani potessero trovare l’unità, almeno cercare
l’unità, ma era chiaro anche che solo Dio può dare l’unità. E siamo
ancora in questo cammino. Ora, con questi temi, l’”alleanza renana” –
per così dire – aveva fatto il suo lavoro.
La
seconda parte del Concilio è molto più ampia. Appariva, con grande
urgenza, il tema: mondo di oggi, epoca moderna, e Chiesa; e con esso i
temi della responsabilità per la costruzione di questo mondo, della
società, responsabilità per il futuro di questo mondo e speranza
escatologica, responsabilità etica del cristiano, dove trova le sue
guide; e poi libertà religiosa, progresso, e relazione con le altre
religioni. In questo momento, sono entrate in discussione realmente
tutte le parti del Concilio, non solo l’America, gli Stati Uniti, con
un forte interesse per la libertà religiosa. Nel terzo periodo questi
hanno detto al Papa: Noi non possiamo tornare a casa senza avere, nel
nostro bagaglio, una dichiarazione sulla libertà religiosa votata dal
Concilio. Il Papa, tuttavia, ha avuto la fermezza e la decisione, la
pazienza di portare il testo al quarto periodo, per trovare una
maturazione ed un consenso abbastanza completi tra i Padri del
Concilio. Dico: non solo gli americani sono entrati con grande forza
nel gioco del Concilio, ma anche l’America Latina, sapendo bene della
miseria del popolo, di un continente cattolico, e della responsabilità
della fede per la situazione di questi uomini. E così anche l’Africa,
l’Asia, hanno visto la necessità del dialogo interreligioso; sono
cresciuti problemi che noi tedeschi – devo dire – all’inizio, non
avevamo visto. Non posso adesso descrivere tutto questo. Il grande
documento “Gaudium et spes” ha analizzato molto bene il problema tra
escatologia cristiana e progresso mondano, tra responsabilità per la
società di domani e responsabilità del cristiano davanti all’eternità,
e così ha anche rinnovato l’etica cristiana, le fondamenta. Ma, diciamo
inaspettatamente, è cresciuto, al di fuori di questo grande documento,
un documento che rispondeva in modo più sintetico e più concreto alle
sfide del tempo, e cioè la “Nostra aetate”. Dall’inizio erano presenti
i nostri amici ebrei, che hanno detto, soprattutto a noi tedeschi, ma
non solo a noi, che dopo gli avvenimenti tristi di questo secolo
nazista, del decennio nazista, la Chiesa cattolica deve dire una parola
sull’Antico Testamento, sul popolo ebraico. Hanno detto: anche se è
chiaro che la Chiesa non è responsabile della Shoah, erano cristiani,
in gran parte, coloro che hanno commesso quei crimini; dobbiamo
approfondire e rinnovare la coscienza cristiana, anche se sappiamo bene
che i veri credenti sempre hanno resistito contro queste cose. E così
era chiaro che la relazione con il mondo dell’antico Popolo di Dio
dovesse essere oggetto di riflessione. Si capisce anche che i Paesi
arabi – i Vescovi dei Paesi arabi – non fossero felici di questa cosa:
temevano un po’ una glorificazione dello Stato di Israele, che non
volevano, naturalmente. Dissero: Bene, un’indicazione veramente
teologica sul popolo ebraico è buona, è necessaria, ma se parlate di
questo, parlate anche dell’Islam; solo così siamo in equilibrio; anche
l’Islam è una grande sfida e la Chiesa deve chiarire anche la sua
relazione con l’Islam. Una cosa che noi, in quel momento, non abbiamo
tanto capito, un po’, ma non molto. Oggi sappiamo quanto fosse
necessario.
Quando
abbiamo incominciato a lavorare anche sull’Islam, ci hanno detto: Ma ci
sono anche altre religioni del mondo: tutta l’Asia! Pensate al
Buddismo, all’Induismo…. E così, invece di una Dichiarazione
inizialmente pensata solo sull’antico Popolo di Dio, si è creato un
testo sul dialogo interreligioso, anticipando quanto solo trent’anni
dopo si è mostrato in tutta la sua intensità e importanza. Non posso
entrare adesso in questo tema, ma se si legge il testo, si vede che è
molto denso e preparato veramente da persone che conoscevano le realtà,
e indica brevemente, con poche parole, l’essenziale. Così anche il
fondamento di un dialogo, nella differenza, nella diversità, nella fede
sull’unicità di Cristo, che è uno, e non è possibile, per un credente,
pensare che le religioni siano tutte variazioni di un tema. No, c’è una
realtà del Dio vivente che ha parlato, ed è un Dio, è un Dio incarnato,
quindi una Parola di Dio, che è realmente Parola di Dio. Ma c’è
l’esperienza religiosa, con una certa luce umana della creazione, e
quindi è necessario e possibile entrare in dialogo, e così aprirsi
l’uno all’altro e aprire tutti alla pace di Dio, di tutti i suoi figli,
di tutta la sua famiglia.
Quindi,
questi due documenti, libertà religiosa e “Nostra aetate”, connessi con
“Gaudium et spes” sono una trilogia molto importante, la cui importanza
si è mostrata solo nel corso dei decenni, e ancora stiamo lavorando per
capire meglio questo insieme tra unicità della Rivelazione di Dio,
unicità dell’unico Dio incarnato in Cristo, e la molteplicità delle
religioni, con le quali cerchiamo la pace e anche il cuore aperto per
la luce dello Spirito Santo, che illumina e guida a Cristo.
Vorrei
adesso aggiungere ancora un terzo punto: c’era il Concilio dei Padri –
il vero Concilio –, ma c’era anche il Concilio dei media. Era quasi un
Concilio a sé, e il mondo ha percepito il Concilio tramite questi,
tramite i media. Quindi il Concilio immediatamente efficiente arrivato
al popolo, è stato quello dei media, non quello dei Padri. E mentre il
Concilio dei Padri si realizzava all’interno della fede, era un
Concilio della fede che cerca l’intellectus, che cerca di comprendersi
e cerca di comprendere i segni di Dio in quel momento, che cerca di
rispondere alla sfida di Dio in quel momento e di trovare nella Parola
di Dio la parola per oggi e domani, mentre tutto il Concilio – come ho
detto – si muoveva all’interno della fede, come fides quaerens
intellectum, il Concilio dei giornalisti non si è realizzato,
naturalmente, all’interno della fede, ma all’interno delle categorie
dei media di oggi, cioè fuori dalla fede, con un’ermeneutica diversa.
Era un’ermeneutica politica: per i media, il Concilio era una lotta
politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa. Era
ovvio che i media prendessero posizione per quella parte che a loro
appariva quella più confacente con il loro mondo. C’erano quelli che
cercavano la decentralizzazione della Chiesa, il potere per i Vescovi e
poi, tramite la parola “Popolo di Dio”, il potere del popolo, dei
laici. C’era questa triplice questione: il potere del Papa, poi
trasferito al potere dei Vescovi e al potere di tutti, sovranità
popolare. Naturalmente, per loro era questa la parte da approvare, da
promulgare, da favorire. E così anche per la liturgia: non interessava
la liturgia come atto della fede, ma come una cosa dove si fanno cose
comprensibili, una cosa di attività della comunità, una cosa profana. E
sappiamo che c’era una tendenza, che si fondava anche storicamente, a
dire: La sacralità è una cosa pagana, eventualmente anche dell’Antico
Testamento. Nel Nuovo vale solo che Cristo è morto fuori: cioè fuori
dalle porte, cioè nel mondo profano. Sacralità quindi da terminare,
profanità anche del culto: il culto non è culto, ma un atto
dell’insieme, della partecipazione comune, e così anche partecipazione
come attività. Queste traduzioni, banalizzazioni dell’idea del
Concilio, sono state virulente nella prassi dell’applicazione della
Riforma liturgica; esse erano nate in una visione del Concilio al di
fuori della sua propria chiave, della fede. E così, anche nella
questione della Scrittura: la Scrittura è un libro, storico, da
trattare storicamente e nient’altro, e così via.
Sappiamo
come questo Concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi,
questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante
calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi,
conventi chiusi, liturgia banalizzata … e il vero Concilio ha avuto
difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era
più forte del Concilio reale. Ma la forza reale del Concilio era
presente e, man mano, si realizza sempre più e diventa la vera forza
che poi è anche vera riforma, vero rinnovamento della Chiesa. Mi sembra
che, 50 anni dopo il Concilio, vediamo come questo Concilio virtuale si
rompa, si perda, e appare il vero Concilio con tutta la sua forza
spirituale. Ed è nostro compito, proprio in questo Anno della fede,
cominciando da questo Anno della fede, lavorare perché il vero
Concilio, con la sua forza dello Spirito Santo, si realizzi e sia
realmente rinnovata la Chiesa. Speriamo che il Signore ci aiuti. Io,
ritirato con la mia preghiera, sarò sempre con voi, e insieme andiamo
avanti con il Signore, nella certezza: Vince il Signore! Grazie!
La
fonte letteraria è il sito internet della Santa Sede.
Il suo indirizzo è il seguente:
http://www.vatican.va
La pagina in oggetto è anch'essa accessibile a tutti!
Il suo indirizzo diretto è il seguente:
http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2013/february/documents/hf_ben-xvi_spe_20130214_clero-roma_it.html